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CNR: Alamanacco della Scienza

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N. 1 - 10 gen 2018
ISSN 2037-4801

Focus - Il 68  

Ambiente

Bèlice, il terremoto che spostò l'accento

14 gennaio 1968. Una domenica come tante nella Valle del Belice. Freddissima, quasi da neve. La messa, il pranzo in famiglia e poi la tanto attesa partita del campionato: il Palermo contro il Potenza. Alle 13.28 la prima scossa. Un forte boato, poi il tremore. Sempre più forte. “U terremoto!”.  A Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale si contano i primi danni. Alle 14.15 un'altra scossa. Ancora più forte. La sentono persino a Palermo, Trapani e Sciacca. Alla radio ancora nessuna notizia. La partita è in corso e di quello che sta accadendo non viene detto nulla. Ma ecco arrivare alle 16.48 la terza scossa, con crolli a Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita e Santa Ninfa. Poco si sa della situazione. Intanto la partita è finita. Il Palermo pareggia 2 a 2. Molti, nonostante il freddo, decidono di dormire all'aperto o in macchina. Alle 2.33 di lunedì, la quarta scossa. Questa si sente fino a Pantelleria. Tutti escono dalle case e si precipitano in strada. Quando alle 3.01 arriva la più forte, di magnitudo 6,3, sono in pochi a essere sorpresi nelle proprie abitazioni. Nonostante ciò, il triste bilancio è di 352 morti, oltre 600 feriti e quasi 100mila senzatetto, oltre ai danni materiali, circa il 90% del patrimonio edilizio e rurale. Quell'anno il Palermo viene promosso in serie A e nella valle del Belice si consuma la prima grande catastrofe nazionale del dopoguerra dopo quello irpino del 1962 (di magnitudo 6,1).

“Per l'allora Istituto nazionale di geofisica (Ing), questo evento rappresentò un importante banco di prova per le attività di monitoraggio sismico del Paese. Le relazioni prodotte per l'occasione furono usate dai governanti del tempo per seguire il preoccupante sciame che durò fino all'inizio del 1969”, ricorda Mario Mattia, primo ricercatore dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e tra gli organizzatori delle iniziative per la commemorazione del terremoto.

Si discute ancora molto su localizzazione delle scosse principali della sequenza, profondità e determinazione della magnitudo. Tutti parametri che risentono della modesta densità delle stazioni sismiche presenti al tempo del terremoto e quindi dei pochi dati disponibili. La Protezione civile all'epoca non esisteva.

“Il terremoto di Messina del 1908 e quello di Avezzano del 1915 erano troppo distanti nel tempo”, spiega Paolo Messina, direttore dell'Istituto di geologia ambientale e geoingegneria (Igag) del Consiglio nazionale delle ricerche. “Nessuno dei governanti dell'Italia repubblicana aveva mai affrontato una simile emergenza”. Da qui i problemi legati ai ritardi, i due giorni senza soccorsi, le convivenze forzate nelle tende e poi nelle baracche, le ultime delle quali smantellate solo negli anni '80.

“La disastrosa sequenza interessò una vasta area compresa fra le province di Agrigento, Trapani e Palermo, con molti eventi apparentemente allineati lungo una direttrice NNE-SSW, ma verosimilmente generati da una faglia di origine compressiva, orientata a circa E-W e tuttora sconosciuta”,  prosegue Messina. “Furono circa una ventina le località della Sicilia occidentale gravemente danneggiate e, fra queste, tre furono completamente distrutte (Gibellina, Montevago e Salaparuta), mentre altre tre furono danneggiate solo in parte (Poggioreale, Santa Margherita di Bèlice e Santa Ninfa)”. “Le foto in bianco e nero dei contadini e della povera gente di quella parte di Sicilia fanno parte dell'immaginario collettivo”, aggiunge Mattia. “Vecchi con le coperte in testa, donne sui muli con facce spaurite, bambini scalzi nel fango delle tendopoli in attesa di aiuti. Tutte immagini che andarono in onda, per la prima volta, sugli schermi televisivi e che riuscirono ad attivare una catena di solidarietà in tutto il Paese. La risposta dello Stato, nell'immediato, si tradusse in biglietti gratis di sola andata per qualunque destinazione che contribuì a produrre 40mila emigrati in Nord Italia o all'estero”.

Il Bèlice, e non più Belìce (con l'accento sbagliato dovuto alla pronuncia dei giornalisti dell'epoca) è diventato il precedente drammatico di tutte le esperienze di intervento post-sisma in Italia. “Quelli lì”, Leonardo Sciascia li chiama così in un suo celebre articolo “lì a Santa Margherita, a Montevago, a Gibellina, a Salemi; quelli che vivono nelle case di gesso e ci muoiono; quelli cui soltanto restano gli occhi per piangere la diaspora dei figli; pulviscolo umano disperso al vento dell'emigrazione”. A 50 anni da quel disastroso terremoto rimane Gibellina Nuova: le case basse e bianche circondate dalle opere di Consagra, il Sistema delle Piazze di Purini e Thermes, la gigantesca sfera bianca della Chiesa Madre, progettata da Ludovico Quaroni e, infine, il dedalo di vie del Cretto di Alberto Burri, gigantesco e potente simbolico sarcofago della Gibellina vecchia.

Silvia Mattoni

Fonte: Mario Mattia, Osservatorio Etneo dell'Ingv , email mario.mattia@ingv.it - Paolo Messina, Istituto di geologia ambientale e geoingegneria, Roma, tel. 06/90672743, 06/90672595 , email paolo.messina@igag.cnr.it -